Credito d’imposta R&S: quando le sanzioni sono disapplicabili

 

Premessa

L’accesso al bonus R&S pone diverse questioni interpretative, la stessa definizione delle attività ammissibili, principalmente legata alla valutazione dell’esistenza del requisito della novità, implica la necessità di rifarsi alle indicazioni di prassi fornite da Agenzia delle Entrate, ma occorre considerare che, la prassi medesima, ha subito una sensibile evoluzione nel corso dell’ultimo triennio.

 

Evoluzione interpretativa dell’ambito oggettivo della norma

Con particolare riferimento al concetto di “novità’”, le Entrate tradizionalmente legano l’innovazione - ai fini dell’eleggibilità delle attività – ad un “miglioramento significativo” di prodotto o processo.

A riprova di questa impostazione, anche il paragrafo 2.1 della circolare 16 marzo 2016, n. 5/E, riporta quanto segue:

Sono, pertanto, escluse dal perimetro dell’agevolazione le modifiche non significative di prodotti e di processi (a titolo esemplificativo, le modifiche stagionali, le modifiche di design di un prodotto, la mera sostituzione di un bene strumentale, i miglioramenti, qualitativi o quantitativi derivanti dall’utilizzo di sistemi di produzione che sono molto simili a quelli già usati).

Sono agevolabili, invece, le modifiche di processo o di prodotto che apportano cambiamenti o miglioramenti significativi delle linee e/o delle tecniche di produzione o dei prodotti (quali, ad esempio, la sperimentazione di una nuova linea produttiva, la modifica delle caratteristiche tecniche e funzionali di un prodotto)”.

La recente risoluzione 40/E del 2 aprile 2019, nel solco di una evoluzione interpretativa avviata dal Mise, a partire dal 2018, modifica però radicalmente l’impostazione tradizionale sopra delineata:

“Secondo tali criteri, può ricordarsi sinteticamente, avendo riguardo al settore delle imprese commerciali, che le attività qualificabili come ricerca e sviluppo sono quelle relative ai progetti intrapresi da tali soggetti per il superamento di una o più incertezze scientifiche o tecnologiche - la cui soluzione non sarebbe possibile sulla base dello stato dell'arte del settore di riferimento e cioè applicando le tecniche o le conoscenze già note e disponibili in un determinato comparto scientifico o tecnologico - con la finalità di pervenire alla realizzazione di nuovi prodotti (beni o servizi) o processi o al miglioramento sostanziale di prodotti o processi già esistenti. Si tratta, quindi, di attività (lavori) che necessariamente si caratterizzano per la presenza di elementi di novità e creatività e per il grado di incertezza o rischio d'insuccesso scientifico o tecnologico che implicano; proprio per tale ragione, contribuendo all'avanzamento delle conoscenze generali attraverso il superamento di ostacoli o incertezze scientifiche o tecnologiche e quindi producendo un benefico per l'intera economia, le attività di ricerca e sviluppo sono potenzialmente meritevoli di essere incentivate con la concessione di contributi pubblici.

Dalla lettura combinata dei due documenti di prassi risulta evidente che, a distanza di tre anni, le modifiche che apportano miglioramenti significativi a processi o di prodotti esistenti parrebbero non più riconducibili all’interno del perimetro delle attività di ricerca e sviluppo ammissibili, perché si dovrebbe pervenire a tali miglioramenti significativi solo mediante l’acquisizione di nuove conoscenze per il settore di riferimento.

Senza addentrarci in questa sede in valutazioni troppo specialistiche, relative alla effettiva coerenza di questo approccio interpretativo, alla luce della manualistica tecnica internazionale di riferimento (Manuali di Oslo e Frascati) e della norma in commento, che in base a quanto previsto dall’art.2 del DM 27 maggio 2015, specifica, in senso opposto, che “non si considerano attività di ricerca e sviluppo le modifiche ordinarie o periodiche apportate a prodotti, linee di produzione, processi di fabbricazione, servizi esistenti e altre operazioni in corso, anche quando tali modifiche rappresentino miglioramenti”, resta il fatto che, a livello di prassi di Agenzia delle Entrate, il concetto di innovazione è radicalmente mutato nell’arco di un triennio.

 

Controlli fiscali e profili sanzionatori

Dall’esperienza maturata a partire da inizio 2018, si è potuto verificare che gli uffici sono soliti qualificare il credito d’imposta indebitamente compensato quale “inesistente per mancanza del requisito costitutivo”, piuttosto che “non spettante”.

Si tratta di una scelta di forte impatto per le imprese, dal momento che la sanzione per utilizzo del credito d’imposta “non spettante” è pari al 30% del credito.

All'opposto, nel caso di contestazione di un credito inesistente si applicherebbe la sanzione dal 100% al 200%, senza possibilità, peraltro, di potere fruire della “definizione agevolata delle sanzioni”.

Si ritiene che questo approccio non risponda alle finalità dell’articolo 13, comma 5 del Dlgs n. 471/1997 circa le compensazioni di crediti inesistenti.

La sanzione prevista per l’indebita compensazione di crediti inesistenti dovrebbe riguardare le sole ipotesi in cui ricorra un comportamento fraudolento del contribuente, come nel caso in cui vengano artatamente creati documenti (cartacei o digitali) per provare lo svolgimento di attività di ricerca e sviluppo che, in realtà, non sono mai state realizzate oppure nei casi in cui il credito d’imposta venga creato artificiosamente in sede di compilazione del modello F24.

Viceversa, in presenza di questioni interpretative legate alla carenza di requisiti oggettivi previsti, non dalla legge, ma a livello di prassi o da altre fonti extrafiscali, il credito d’imposta non dovrebbe mai essere qualificato come credito inesistente.

A ben vedere, a fronte di situazioni che implicano l’interpretazione di fenomeni e questioni molto complessi, le categorie utilizzate dagli uffici per qualificare i crediti d’imposta indebitamente fruiti appaiono inadeguate.

Almeno con riferimento al triennio 2015-2017, su questioni interpretative di una certa complessità, sarebbe forse più corretto consentire alle imprese di invocare l’esimente delle obiettive condizioni di incertezza interpretativa della norma, come peraltro già previsto anche dalla circolare 13/E del 27 aprile 2017.

Adottando tale soluzione i contribuenti potrebbero regolarizzare la propria posizione secondo le ordinarie regole, senza applicazione di sanzioni, provvedendo al versamento dell’importo del credito indebitamente utilizzato in compensazione e dei relativi interessi e presentando apposita dichiarazione integrativa.

Consentire il riconoscimento delle obiettive condizioni di incertezza interpretativa della norma potrebbe anche aiutare a prevenire l’insorgenza di numerosi contenziosi tributari.





Newsletter inviata il giorno 23/05/2019


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